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Pubblicità (s)e(nza) etica

Pubblicità s. f. [dal fr. publicité, der. di public «pubblico»]. – 3. L’insieme di tutti i mezzi e modi usati allo scopo di segnalare l’esistenza e far conoscere le caratteristiche di prodotti, servizî, prestazioni di vario genere predisponendo i messaggi ritenuti più idonei per il tipo di mercato verso cui sono indirizzati.

Questa è la definizione di pubblicità che dà il vocabolario Treccani, descrivendone in maniera ineccepibile l’essenza. A voler essere pignoli, manca un riferimento ad una gamma di valori etici, morali e culturali che sarebbero da tenere in considerazione quando si fa pubblicità: ma siamo nel 2018, suvvìa, mica c’è bisogno di puntualizzare queste cose. Sul serio, ci sono pubblicità che non tengono conto di tali valori? Esistono aziende che, per «segnalare e far conoscere le caratteristiche di prodotti», utilizzano messaggi discutibili dal punto di vista etico, morale e culturale?

Beh, sì.

L’otto gennaio scorso, il noto marchio svedese di abbigliamento H&M se n’è uscito con una campagna pubblicitaria che ha generato non poche polemiche: per pubblicizzare abbigliamento per ragazzi, una foto mostrava un ragazzino di colore con indosso una felpa verde. Niente di male, se non fosse che la felpa portava stampata la scritta “coolest monkey in the jungle”, qualcosa tipo “la scimmietta più carina della giungla”. Non c’è bisogno di una laurea in scienze sociali per fiutare odore di razzismo. Da ogni angolo del web (che riflette in maniera abbastanza fedele molti spazi del mondo reale) sono piovute critiche, indignazione e proposte di boicottaggio. H&M è corsa subito ai ripari: ha fatto uscire un bel comunicato di scuse, si è detta dispiaciuta dell’accaduto ed ha ritirato sia la pubblicità sia il prodotto. Ed ha pure assunto un “Diversity Leader”, cioè una sorta di caporeparto per il settore “Diversità e Apertura”, per porre maggior attenzione ai processi aziendali ed evitare altre figuracce. Lieto fine.

La risonanza mediatica avuta da questa brutta faccenda è sicuramente servita da monito alle altre multinazionali, che da adesso in poi presteranno doppia attenzione alle loro campagne pubblicitarie.

O no?

Il diciannove gennaio, l’azienda italiana Wycon Cosmetics lancia una nuova linea di smalti: tantissimi colori tra cui scegliere, ognuno dei quali reclamizzato da un numero identificativo ed un nome. C’è pure un bello smalto nero, numero 30. Nome: “Thick as a Nigga”. In italiano, letteralmente, suonerebbe tipo “grosso/tosto come un negro”. Ehm. Ce n’era davvero bisogno? Le conseguenze hanno un che di déjà-vu: critiche, indignazione, boicottaggio. Wycon Cosmetics riesce forse a far peggio di H&M sul versante delle scuse: giustifica la scelta dei nomi in quanto ripresi da titoli di canzoni famose (sic) con «allegria ed un pizzico di ingenuità». «Ciononostante, per rispetto di chi si è sentito offeso», il nome in questione è stato rimosso e trasformato in un innocuo “Black Power”.

Questi sono solo due casi, verificatisi in appena un mese di 2018. Casi che fanno seguito ad un’imbarazzante pubblicità della Dove dell’ottobre scorso, in cui una ragazza di colore, nell’atto di togliersi la maglia marrone che indossa, scopre e mostra la sua nuova identità di ragazza dalla pelle bianchissima e t-shirt altrettanto bianca. Che il potere sbiancante del sapone sia una conseguenza del desiderio sbiancante dell’azienda?

Andando indietro nei mesi, ma pur rimanendo negli anni ’10, di pubblicità di questo tipo se ne trovano in abbondanza. E allora viene da chiedersi: vale sempre il vecchio motto di Dorian Gray, cioè il “purché se ne parli” (*), in barba a qualsiasi etica e morale?

Oppure, tornando alla definizione della Treccani, questo tipo di messaggi sono ritenuti i «più idonei per il tipo di mercato verso cui sono indirizzati», e cioè il mercato nato in una società che non si è mai liberata di razzismi, fascismi e ideologie discriminatorie?

In quanto fruitori delle comunicazioni commerciali, possiamo fare delle scelte.

In quanto consumatori, possiamo fare delle scelte.

In quanto cittadini, possiamo fare delle scelte.

 

(*) Oscar Wilde fa dire al suo personaggio: «There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about». Che, letteralmente, si traduce con: «C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé». Semplificando, col tempo, il concetto si è trasformato in: «Nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli».

 

*#TeletruriaGiovani è un nuovo progetto coordinato da Teletruria, nato dalla volontà di dare voce ai giovani. Il team di #TeletruriaGiovani è formato esclusivamente da ragazzi under 40 non giornalisti che, per il gusto di scrivere e per la passione di condividere le loro esperienze, hanno deciso di curare delle rubriche tematiche. I ragazzi sono tutti volontari e scelgono in autonomia i temi su cui scrivere.

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